Ognuno di noi si ritrova oggi a riflettere e ad ascoltare ciò che risuona prepotentemente dentro di sé in questo tempo di isolamento forzato, di distanziazione dall’altro, non solo estraneo ma magari che amiamo quale un genitore, una sorella, un nonno, un figlio, un amico. Sicuramente la nostra testa è affollata da mille pensieri, dubbi, domande, opinioni sbandierate dai molti, troppi professori, virologi, opinionisti, filosofi, guide spirituali e chi più ne ha più ne metta che stanno spopolando negli schermi e nel web.
Io vorrei fare del “corpo“ l’oggetto di questa mia riflessione: il corpo vissuto, il corpo mediatore nella relazione con l’altro.
Qual è l’esperienza del “corpo che sono” in questo buio momento di assenza nelle relazioni sociali?
La distanza e tutti i dispositivi che dobbiamo utilizzare per non far ammalare il “corpo che ho“ paradossalmente nuocciono o peggio uccidono il “corpo che sono”.
Il corpo vissuto, quel luogo e sorgente continua di sensazioni, emozioni , sentimenti trova molte vie sbarrate nel raggiungere il corpo dell’altro: il toccarlo, accarezzarlo, stringerlo o semplicemente sfiorarlo in un gesto di vicinanza è ora impedito.
Che assenza dolorosa sta sperimentando il nostro corpo! Che vuoto disarmante destrutturante e sofferto!!!
Il corpo che suona e vibra per e con l’altro come uno strumento musicale siamo ora costretti a tenerlo a lungo dentro la sua custodia e suonarlo di tanto in tanto per un pubblico che non c’è.
Il “corpo che sono“ è intermediario imprescindibile nell’incontro con l’altro; è più di semplice presenza , è insieme presente e partecipante alla mia vita interiore e alla vita di relazione. Ed è attraverso la parola, muta e nello stesso tempo molto eloquente, dei codici del corpo, codici che mai mentono, che posso incontrare e scoprire l’altro.
Ma ora com’è cambiato questo linguaggio? Ora che non possiamo oltrepassare quella distanza che sancisce la nostra incolumità che succede al nostro corpo? Ora che il corpo dell’altro non è più considerato occasione e oggetto di conoscenza, punto di contatto , strumento per costruire una relazione , ma piuttosto è temuto come potenziale portatore di malattia, come un pericolo e una minaccia, come stiamo affrontando e vivendo questa nuova esperienza?
Onestamente non riesco a dare risposte a queste e alle tante domande che in questo periodo mi tormentano, posso solo mettermi ancor più in ascolto rispettoso del “corpo che sono“, permettergli di esprimere la sua sofferenza, apprezzare le sue parole senza farmi giudice, lenire le sue ferite superficiali e accogliere quelle profonde.
Di certo il vuoto creato dall’assenza del corpo dell’altro non può essere colmato con surrogati, va vissuto e amato.
Il “corpo che sono“ è donazione di senso, e se è vero che nulla sarà come prima voglio sperare che almeno domani tutto potrà avere più valore di prima.
Ogni Alba porta un nuovo giorno, lavando con la luce della speranza le macchie e la polvere dello spirito vuoto di ogni giorno passato.Vuoi celare te stesso!
Il cuore non ubbidisce, diffonde luce dagli occhi.
Nella vita non c’è speranza
di evitare il dolore:
che tu possa trovare nell’animo
la forza per sopportarlo.
Cieco, non sai che l’andare e il venire camminano sulla stessa strada?
Se sbarri la strada all’andata
perdi la speranza del ritorno…
Rabindranath Tagore – L’alba