La figura della Doula

Ma chi sono le doule? Cosa fanno?
La doula è una figura professionale sociale, non è una figura sanitaria, ed esercita la sua professione secondo le direttive della legge 4/2013.
Si occupa del sostegno concreto, affettivo e relazionale alla donna e alla famiglia nella gravidanza e fino al primo anno di vita del bambino
Mondo Doula, attiva dal 2009 e dal 2017 associazione professionale, promuove lo sviluppo della figura della doula e le sue pratiche verso le madri e i loro bambini, attraverso la scuola di formazione, la ricerca sul territorio e la costante definizione di proposte progettuali, collaborative e di crescita individuale.
L’associazione attualmente conta 450 socie e soci che operano in molte regioni italiane.
Abbiamo chiesto alla presidente, Sara Cavallaro, di descrivere in modo più approfondito la specificità di questa figura professionale:
“La doula è un mestiere che contempla l’occuparsi della maternità insieme alle donne, alle madri, alle coppie, alle famiglie. Agisce in un campo e in un tempo che vanno dal concepimento al primo anno di vita del bambino, affiancando la madre, la coppia e la famiglia in questo viaggio molto intenso, pieno e soggettivo, sostenendo sia emotivamente che concretamente.
Partiamo dal presupposto che questo viaggio è un viaggio che deve rimanere autentico, il più possibile corrispondente a come è fatta quella mamma, quella coppia, quella famiglia. Più quel viaggio è un’esperienza corrispondente, più è una buona esperienza. La doula è una figura sociale che si muove dalla singolarità della mamma al fuori della casa, accompagnandola in un lavoro di prossimità, a stretto contatto. Questa prossimità implica la necessità di avere competenze importanti poiché ci muoviamo nella casa, che è il luogo dell’intimità, lavorando con rispetto, umanità, senza giudizi e senza mai sostituirci alla mamma, osservando e riconoscendo tutte le risorse e le potenzialità presenti.
Oggi Mondo Doula è un’associazione che è stata riconosciuta dal Ministero dell’Impresa e del Made in Italy, quindi rientriamo in un elenco di professioni non ordinistiche che possono rilasciare un attestato di qualità. E questo, dal 2017 (anno della nostra rinascita come associazione professionale) in poi, ci ha permesso di poter lavorare sui nostri confini professionali.
La doula sostiene emotivamente e al tempo stesso fa cose molto concrete, mantenendo sempre una grande attenzione alla storia di quella mamma e alla sua storia di maternità. La doula riesce a costruire le giuste reti attorno alle mamme, quelle reti che non sono uguali per tutte ma devono corrispondere a dei bisogni e a delle soggettività. È un grande lavoro alla pari. Che non significa essere uguali: vuol dire lavorare con competenza e sapere professionale, ma in una maniera orizzontale.”

Parliamo di grafomotricità…

Sentiamo spesso parlare di grafomotricità ma forse non sappiamo bene che cos’è.

Cercherò  di dare una definizione e di chiarire alcuni concetti perché credo che solo conoscendo di che cosa si tratta   si può capirne il senso, la valenza e l’importanza.

Possiamo definire la grafomotricità un processo di ordine psicomotorio che porta all’organizzazione dei gesti necessari per la scrittura, e sostenere che la funzione grafomotoria comprende quindi tutto il corpo, non solo il braccio e la mano che sono coinvolti nel movimento  grafico.

Grafomotricità intesa come  possibilità di sperimentarsi ed esprimere il proprio mondo interiore attraverso la traccia che si imprime su qualsiasi superficie che consente di registrarla.

Se in un primo momento è il corpo nella sua globalità a partecipare alla realizzazione grafica successivamente, nella scrittura, sarà la mano correlata al corpo ben controllato ad agire sullo spazio grafico.

Nella grafomotricità sono coinvolte molte componenti psicomotorie: equilibrio, tono, coordinazione oculo-manuale, postura, prensione, oggetto, lateralità, schema corporeo, controllo motorio-prassico, strutturazione spazio-temporale  e se queste componenti sono in disarmonia possono determinare disfunzioni grafomotorie che possono portare poi a disordini della scrittura.

Possiamo dire quindi che l’esperienza della grafomotricità  è un’esperienza prevalentemente senso-motoria in cui prevale la componente affettivo-relazionale mentre non è coinvolta la componente  cognitiva. E’ proprio la dimensione affettivo-relazionale  e non quella cognitiva che caratterizza la grafomotricità in cui è in gioco il corpo  nella sua espressività in rapporto agli oggetti e allo spazio.

Con la grafomotricità si possono offrire spazi di sperimentazione, esplorazione ed espressione di sé necessari per lo sviluppo delle abilità e requisiti per lo sviluppo della scrittura e tutto ciò in forma ludica senza la preoccupazione del risultato, del prodotto.

La grafomotricità quindi può essere utilizzata e proposta in ambito preventivo- educativo con percorsi adatti all’età prescolare attraverso attività ludiche e coinvolgenti in cui i bambini vengono incuriositi e motivati a cimentarsi nelle attività grafiche con esperienze che inizialmente coinvolgono tutto il corpo  per poi passare a quelle più strutturate che conducono allo spazio del foglio.

E ciò sempre in una cornice ludica, stimolante e coinvolgente in cui il bambino può essere accompagnato all’acquisizione dei prerequisiti della scrittura.

Articolo di Annalisa De Nardo, psicomotricista, formatrice con certificato in grafomotricità

Il corpo docente

Con il termine “corpo docente” ci si riferisce all’insieme di insegnanti, educatori, professori che hanno la responsabilità e il compito di insegnare ed educare, di trasmettere  conoscenze e sviluppare competenze.

In questo contesto vorrei invece affrontare la questione del corpo docente  in una direzione diversa, in un’ottica cioè psicomotoria  che supera la visione falsamente neutra di “corpo docente” e parlare piuttosto di “corpo del docente”, con la sua pluralità di linguaggi e codici. Quando  parlo di corpo docente io vorrei partire dall’assunto che laddove esiste il corpo del bambino, là c’è anche il corpo dell’insegnante, un corpo con un’identità di genere, caricato di pensieri, valori, atteggiamenti e stereotipi.

Come già sostenuto in precedenza il corpo è molto importante nella relazione pedagogica:

la comunicazione tra insegnante e allievo avviene non solo attraverso il linguaggio verbale, cognitivo, ma soprattutto attraverso il linguaggio corporeo. C’è il linguaggio corporeo dell’adulto, il linguaggio corporeo del bambino e l’interazione dei due linguaggi.

E’ evidente come qualunque lavoro pedagogico passi attraverso l’interazione psico-corporea, attraverso il linguaggio del corpo e del gesto, della mimica, della postura e della presenza, dell’ascolto e dell’empatia.

Giocando con le parole mi piace  anche dire che “il corpo è docente”; infatti  assume un’enorme importanza nella relazione in quanto ha moltissimo da insegnare, informazioni importanti da veicolare, saperi da trasmettere, esperienze da comunicare, vissuti da condividere.

Il corpo dell’insegnante diventa il focus nella relazione educativa, per cui sarebbe auspicabile, direi anzi necessario che ogni insegnante-educatore prestasse molta attenzione alle modalità e agli atteggiamenti corporei spesso automatici e poco consapevoli. Nelle aule scolastiche l’insegnante interagisce  con il suo corpo  e con l’immagine del proprio sé corporeo, frutto di elaborazioni, di scambi affettivi, di uno sviluppo nel tempo ed espressione di rappresentazioni. Egli entra in classe con un corpo che ha una sua storia, un suo vissuto e  che è depositario di esperienze passate  registrate a livello inconscio, che ha  una sua espressività. Per potersi  collocare a fianco del bambino in un’attività educativa significativa, l’insegnante  dovrebbe  quindi  avere  una buona percezione  e una reale presa di coscienza del proprio corpo ed essere  consapevole dei messaggi che ne derivano e che trasmette.

In una relazione educativa è quindi fondamentale avere un certo grado di consapevolezza di sè per non proiettare all’esterno e vedere nell’altro ciò che appartiene solo a noi. E’ necessario avere chiaro “chi sono, cosa appartiene a me a all’altro, come posso aiutare l’altro a sviluppare le sue capacità e potenzialità” senza invasioni di campo.

“La cultura” non ha abituato il corpo docente  a mettere attenzione su come si  sentono, su cosa  succede nel loro sentire corporeo mentre svolgono  la loro professione. Spesso nell’ambito della scuola, l’attenzione prevalente è proiettata verso il mondo fuori, alle attività e ai contenuti da trasmettere; il “sentire”, inteso come consapevolezza  di ciò che avviene, di avvertire emozioni, affetti e sensazioni fisiche veicolate dal corpo, non ha uno spazio sociale come se non facesse parte della relazione educativa. Invece sono proprio questi gli elementi che possono portare un’insegnante in un processo personale e professionale a comprendere  stati di difficoltà, di malessere o di paure del bambino che ha di fronte e stabilire una comunicazione chiara ed empatica.

Quanti insegnanti sono consapevoli e pongono come centralità relazionale la corporeità con le sue implicazioni psicoaffettive, personali e del bambino?

Quanti sono consapevoli e attenti dei diversi parametri psicocorporei che sono mediatori importanti nella relazione con il bambino: il tono, la postura, la voce, lo sguardo, il gesto?

L’obiettivo sarebbe  allora che il corpo docente si  riappropriasse di un “sentire” consapevole che sa distinguere ciò che è proprio da ciò che è dell’altro, che conosce le proprie fragilità, i limiti della storia personale, ma anche le proprie risorse. E questo è possibile mettendosi in un ascolto attento della propria corporeità facendo attenzione alla propria espressività corporea, alla postura, al modo di muoversi e spostarsi nello spazio, ai comportamenti e atteggiamenti, per fornire una comunicazione chiara affinchè la gestualità veicoli un messaggio inconfondibile e perché vi sia una coerenza tra il messaggio verbale e quello corporeo. Quante volte accade che il messaggio corporeo  non supporta né conferma quello verbale! Quanta ambiguità inconsapevole che crea ambiguità e difficoltà nella comunicazione!

Nella scuola e nei contesti educativi in generale si avverte sempre più  l’urgenza di reimparare ad ascoltare il linguaggio della comunicazione autentica: il linguaggio del corpo e del gesto, della postura e della presenza, dell’ascolto e dell’empatia.

 

Annalisa De Nardo, psicomotricista e formatrice

 

La psicomotricità: una disciplina flessibile in continua crescita

 

Nella società odierna stiamo vivendo dei cambiamenti notevoli che costringono a mettere  in discussione le competenze tradizionali acquisite nei vari ambiti professionali. Stiamo assistendo alla nascita di nuove professioni che richiedono la necessità di acquisire competenze costantemente aggiornate, innovative, consapevoli delle nuove sfide sociali e che richiedono un alto grado di flessibilità.

E’ richiesta oggi una  multidisciplinarietà delle conoscenze che  si riferisce alla capacità di un individuo di integrare e applicare conoscenze provenienti da diverse discipline e settori  per affrontare sfide sempre più complesse e dare risposte a bisogni che cambiano velocemente.

In un mondo sempre più interconnesso la multidisciplinarietà è diventata una caratteristica preziosa per molte professioni e consente di considerare un problema o una situazione da diverse prospettive, integrando aspetti e approcci provenienti  da diverse discipline; un approccio olistico che favorisce una comprensione più completa e approfondita della questione affrontata.

Ecco allora che anche  la professione dello psicomotricista, come tutte le professioni che si pongono al servizio dell’altro e che  considera la persona nella sua globalità psico-corporea e si prefigge di promuoverne  il  benessere e lo sviluppo armonioso attraverso l’espressione corporea e il movimento, oltre alle specifiche competenze tecniche e scientifiche e pratiche   deve saper dialogare e fare rete con   le altre discipline che pongono al centro  la persona nei suoi bisogni. E’ necessario, oggi più che in passato,  che lo psicomotricista dimostri di aver acquisito  una multidisciplinarietà delle conoscenze in ambito pedagogico, psicologico, psichiatrico, neurologico, sociologico, riabilitativo  e sia in grado di collaborare con gli altri professionisti dimostrando flessibilità e professionalità.

Alla base della psicomotricità c’è la concezione integrale della persona che  si basa sull’idea che il corpo, la mente, le emozioni siano strettamente interconnessi e che il benessere e lo sviluppo armonioso della persona dipendano dall’integrazione di questi aspetti.

Oggi più che mai le persone esprimono disagi che spesso si manifestano in sintomi o segni somatici, in malesseri corporei che alla base hanno una sofferenza  psicologica, e cercano attività e proposte che rispondano al bisogno di benessere, al bisogno di riappropriarsi della  propria  corporeità, di riscoprirne i suoi valori e le sue potenzialità. E la psicomotricità, attraverso un approccio globale e personalizzato e lavorando sull’integrazione di queste dimensioni, è in grado di rispondere a questi bisogni emergenti e sempre più pressanti.

Sappiamo che l’approccio psicomotorio considera anche il contesto sociale e culturale in cui la persona vive e si relaziona e per questo lo psicomotricista nella sua professione  si trova a dover affrontare oggi dei cambiamenti notevoli e delle trasformazioni complesse influenzate da fattori economici, politici e sociali specifici che impattano decisamente sulle vite delle persone.

Pensiamo alla tecnologia e connettività, a come queste hanno favorito lo sviluppo di nuove forme di interazione sociale in cui il corpo viene in qualche modo vissuto parzialmente. Pensiamo alla globalizzazione che ha portato ad una maggiore interculturalità e ci ha fatto conoscere diverse  concezione e visioni della corporeità.

Pensiamo alla diversità e all’inclusione, all’impegno di promuovere l’inserimento e l’integrazione  di persone provenienti da diverse etnie, religioni, orientamenti sessuali e condizioni fisiche e cognitive.

Pensiamo anche ai cambiamenti dei modelli familiari, all’aumento delle famiglie con un solo genitore, alle famiglie ricomposte  e alle convivenze non matrimoniali,  a come tutto ciò si riflette nelle relazioni e nei valori familiari all’interno della società.

Pensiamo inoltre al grado di esposizione al bombardamento mediatico a cui sono sottoposti i bambini  che li rende precocemente informati e informatizzati, in assenza però di efficaci filtri genitoriali; essi sono particolarmente esposti alla massiccia presenza pubblicitaria nella fruizione televisiva che è molto accattivante e attraente ma che crea dipendenza passiva e consumismo. I valori dominanti della nostra società rispecchiano più la logica di mercato e di consumo che quelle di un’etica sociale più ampiamente condivisibile.

Pensiamo anche alla crescente consapevolezza ambientale che comunque costituisce una fonte d’ansia  e motivo di preoccupazione per il cambiamento climatico, per la tutela delle risorse naturali, per l’inquinamento.

Questi sono solo alcuni degli aspetti che caratterizzano i cambiamenti sociali e culturali nella società odierna e che influiscono sulla persona, sulla sua salute fisica, mentale e sul suo benessere psicologico.

La psicomotricità, che si occupa del disagio della persona e della prevenzione dello stesso, si evolve costantemente per rispondere alle sfide e alle esigenze del contesto attuale e il suo approccio integrato e globale che valorizza il corpo, le emozioni, la comunicazione e l’inclusione, considerando anche nuove tecnologie come risorse supplementari, è innovativo e sempre in continua evoluzione.

I diversi ambiti  d’intervento della psicomotricità  sono molteplici: ambito socio-sanitario, educativo-preventivo, riabilitativo, della salute mentale, dell’inclusione sociale, del mondo del lavoro e la fascia d’età a cui si rivolge va dalla primissima infanzia all’età senile.

La psicomotricità avvalendosi di strumenti specifici, ha il compito di favorire lo sviluppo psicomotorio armonico del bambino e dell’adolescente, di preservare l’equilibrio psicomotorio del giovane, di promuovere il benessere  dell’adulto in diverse situazioni, di salvaguardare l’equilibrio precario della persona anziana.

Annalisa De Nardo, psicomotricista e formatrice

Giochiamo una fiaba

Laboratorio di letture animate

il giovedì mattina dalle 10.00 alle 11.30
Incontri rivolti a bambini dai 6 ai 30 mesi accompagnati da un adulto: mamma o papà, zia o nonna o baby sitter…

Arriva Paola con una valigia carica di libri da leggere insieme! I libri prendono vita, parlano davvero! E i bambini sono catturati dal racconto, dai personaggi che escono e camminano in mezzo a loro.

Ma con i bambini così piccoli ?? Direte voi… Siiiiii, proprio con bambini così piccoli!

Perchè non è mai troppo presto per iniziare a leggere. La voce è come un flauto magico, la presenza del genitore diventa complicità, i bambini interagiscono tra loro e con Paola e …il tempo vola!

Un’esperienza da non perdere!

Un ciclo di 5 incontri a cadenza settimanale di 1 ora e mezza ciascuno

Conduce gli incontri Paola Cesen, laureata in discipline dello spettacolo e Doula

Ricamo in serenità

Laboratorio di ricamo per adulti

dalle 20,00  alle 21,30

In un’atmosfera tranquilla e accogliente, esploreremo insieme l’arte del ricamo come pratica di rilassamento. Nel ritmo lento e concentrato dei punti , lasceremo che ogni filo e ogni gesto siano un momento di meditazione.

Sperimenteremo il potere della creatività. Questi incontri sono aperti a tutti, donne e uomini, in particolar modo ai principianti e a chi desideri trovare un momento di serenità interiore.

Conduce il laboratorio la maestra  Laura Marzorati. Organizza corsi di ricamo e stage di studio per principianti ed esperti. Cura in modo particolare il metodo didattico, per fornire ai partecipanti un percorso creativo. Si è dedicata alla scrittura e pubblicazione di manuali tecnici, per offrire un metodo formativo a chi si accosta al ricamo.

Un ciclo di 5 incontri a cadenza settimanale il lunedì sera dalle 20,00 alle 21,30.

Date incontri:

Lunedì 17  febbraio : Lavorazione dell’iniziale

Lunedì 24 febbraio:  Fiore a punto indietro e punto smerlo

Lunedì 10 febbraio: Boccioli  e punto lanciato

Lunedì 17 marzo : Punto margherita e punto nodino

Lunedì  24 marzo: Rifiniture e ramages

 

 

 

Introduzione al sentiero

Incontri sugli insegnamenti della tradizione buddhista

dalle 19,00 alle 20,30

Questo percorso si articola attraverso una serie di incontri mensili dedicati a offrire una panoramica introduttiva sugli insegnamenti della tradizione buddhista. ln particolare il percorso si focalizza su:

  • La storia del Buddha e l’inizio del suo percorso 
  • Le Quattro Nobili Verità
  • L’Ottuplice sentiero
  • Le Quattro Dimore divine 
  • Le Tre caratteristiche dell’esistenza 

Ogni incontro prevede:

  • Insegnamenti 
  • Meditazione 
  • Condivisione del gruppo con spazio per domande, condivisioni

A chi è dedicato il programma

Introduzione al Buddhismo è pensato per chiunque voglia conoscere di più degli insegnamenti del Buddhismo. Gli incontri offrono una panoramica generale con un’enfasi sull’applicabilità e rilevanza nella vita quotidiana. Gli incontri sono aperti a tutti e sono particolarmente indicati a chi ha già partecipato a percorsi mindfulness-based e desidera conoscere il lignaggio originario di questa tradizione. 

Date degli incontri 

Lunedì dalle 18,30 – 20,30

  • 20 Gennaio
  • 17 Febbraio
  • 24 Marzo
  • 14 Aprile
  • 12 Maggio

Il corso si svolge in modalità ibrida e cioè online e in presenza.

Conduce gli incontri Anna Li Vecchi, insegnante di Mindfulness https://www.itacamindfulness.com/anna-li-vecchi/

Per maggiori informazioni https://www.itacamindfulness.com/proposte/introduzione-al-buddhismo/

Corsi Tenuti:

I lunedì dell’arte – Surrealismo tra sogno e realtà

Laboratorio d' arte

Laboratorio d’arte per bambini dai 6 agli 11 anni

dalle 17,00 alle 18,30

Creeremo mondi onirici e incantati come facevano  i grandi artisti surrealisti, utilizzando tecniche miste (acrilico, acquerello, collage utilizzando materiali naturali e di riciclo).

Sarà per il bambino un esperienza unica che gli permetterà di dialogare con il suo mondo onirico fonte di intuizioni e scoperte…

Conduce il laboratorio, Laura Bot, Laureata presso l’Accademia delle belle Arti di Venezia. Diplomata alla scuola di fotografia Riccardo Bauer a Milano. Specializzata alla scuola di formazione triennale in Arteterapia a Pordenone. Formata alla scuola di Disegno Onirico a San Donà di Piave. Da vent’anni lavora attraverso l’arte nelle sue molteplici forme, proponendo percorsi artistici e creativi rivolti a bambini, ragazzi, adulti, persone diversamente abili, anziani. Propone percorsi di arteterapia individuali e di gruppo.

 

Gioco Teatro

Inizio corso per bambini dai 6 ai 9 anni

il giovedì pomeriggio dalle 16.30 alle 17.30 per bambini dai 6 ai 9 anni

 

Percorso didattico, espressivo e creativo per stimolare la fantasia e la sensorialità dei bambini mediante l’uso e la conoscenza del proprio corpo e della propria voce…                

E’ un attività che aiuta il bambino ad esprimere e interpretare emozioni e fantasia.     

Un ciclo di 6 incontri a cadenza settimanale di 1 ora ciascuno.                                                           

Conduce l’incontro Paola Cesen, laureata in Discipline dello spettacolo.

 

Il primo incontro può essere l’occasione per provare l’attività.

Date incontri : 06/13/20/27 marzo  – 3/10 aprile

 

ALLATTAMENTO: LA GESTIONE NEI PRIMI GIORNI

Incontro informativo gratuito

alle ore 20,00

Parleremo delle basi per un buon avvio dell’allattamento (attacco, posizioni…) e delle problematiche più comuni che si riscontrano nei primi giorni dopo il parto e strategie per affrontarle.

Saremo felici di accoglierti con un accompagnatore per partecipante (papà, mamma, sorella, amica…) poiché siamo convinti che una buona rete di supporto sia un buon punto di partenza 😉

 

L’incontro sarà condotto da Federica Gasparella, Consulente Professionale in Allattamento certificata IBCLC, ostetrica.

I lunedì dell’arte – Joan Mirò e la poesia del Surrealismo Astratto

Laboratorio d' arte

dalle 17,00 alle 18,30

“Ho sempre bisogno di un punto di partenza, sia esso una macchia di polvere o uno squarcio di luce. Questa forma fa nascere una serie di cose, una ti conduce verso un’altra. Un pezzo di filo può dare inizio a un mondo. Trovo i miei titoli man mano che lavoro, allo stesso modo in cui sulle mie tele una cosa porta ad un’altra“ 

Joan Mirò

Mirò è stato un pittore, scultore, ceramista,  un artista che attraverso le sue opere riesce a parlare direttamente al cuore delle persone e soprattutto dei bambini.
In questo laboratorio i bambini creeranno delle originali opere ispirate al grande artista, aumentando e accrescendo le loro abilità manuali, artistiche ed espressive, si utilizzeranno tecniche miste: carta-colla e pittura acrilica.

Conduce il laboratorio Laura Bot, Laureata presso l’Accademia delle belle Arti di Venezia. Diplomata alla scuola di fotografia Riccardo Bauer a Milano. Specializzata alla scuola di formazione triennale in Arteterapia a Pordenone. Formata alla scuola di Disegno Onirico a San Donà di Piave. Da vent’anni lavora attraverso l’arte nelle sue molteplici forme, proponendo percorsi artistici e creativi rivolti a bambini, ragazzi, adulti, persone diversamente abili, anziani. Propone percorsi di arteterapia individuali e di gruppo.

 

Bambini e cibo: quale ruolo ha la famiglia per una corretta educazione alimentare ?

Incontro informativo per adulti

alle ore 20.00

In collaborazione con il negozio Happy Kids si terrà un incontro rivolto a tutte le famiglie interessate a comprendere meglio quale sia il percorso alimentare appropriato per i propri figli. Una sana ed equilibrata alimentazione fin da piccoli sostiene adeguatamente il loro sviluppo, i loro fabbisogni e le loro scelte e pone le basi per un corretto regime alimentare indispensabile per il mantenimento di uno stato di salute e benessere fisico ottimali.

Conduce l’incontro il dott. Carmine Sofio, biologo nutrizionista.

L’evento si terrà presso il negozio Happy Kids https://www.happykidstreviso.it/

E’ gradita la prenotazione.

Yoga bimbi

Inizio corso

Il martedì pomeriggio

dalle 16.30 alle 17.15 dai 4 ai 6 anni

dalle 17.30 alle 18.30 dai 7 ai 10 anni

Il gioco, l’immaginazione e la fantasia sono i canali attraverso i quali lo Yoga viene trasmesso ai bambini…

Il primo incontro potrà essere un’occasione per provare l’attività, prenota il tuo posto.

Conduce l’incontro Federica Fedrigo, insegnante yoga per adulti e bambini con diploma riconosciuto Yoga Alliance®.

Un ciclo di 6 incontri . Date incontri: 25 marzo, 1/8/15/22/29 aprile 2025

Yoga bimbi – Diventaregrandi

Corsi Tenuti:

I lunedì dell’arte – Mondrian e l’essenza delle forme

Laboratorio d' arte

Laboratorio d’arte per bambini dai 6 agli 11 anni

dalle 17,00 alle 18,30

Esploreremo le opere del grande artista e attraverso l’esperienza pittorica e la tecnica dei gessetti ci immergeremo nella sintesi magica di colori e forme.

Prenderemo spunto dall’albero come faceva Mondrian e impareremo la tecnica della semplificazione.

Conduce il laboratorio, Laura Bot, Laureata presso l’Accademia delle belle Arti di Venezia. Diplomata alla scuola di fotografia Riccardo Bauer a Milano. Specializzata alla scuola di formazione triennale in Arteterapia a Pordenone. Formata alla scuola di Disegno Onirico a San Donà di Piave. Da vent’anni lavora attraverso l’arte nelle sue molteplici forme, proponendo percorsi artistici e creativi rivolti a bambini, ragazzi, adulti, persone diversamente abili, anziani. Propone percorsi di arteterapia individuali e di gruppo.

Il mondo dei normali

TIC-TAC TIC-TAC…
C’è un mondo, chiamato MONDO DEI NORMALI, dove tutti coloro che ci abitano sono impegnati a compiere il proprio dovere giorno e notte. TIC-TAC
Donne e uomini lavorano alacremente in casa e fuori, corrono e corrono senza fermarsi un attimo, tutti intenti come sono a lavorare. TIC-TAC
Gli abitanti del MONDO DEI NORMALI sono così concentrati sui loro mille problemi, da non aver proprio il tempo di parlare del più e del meno con il vicino di casa, l’unica cosa che cattura il loro interesse è il ticchettio dell’orologio che corre corre anche lui tutto indaffarato. TIC-TAC
In questo mondo c’è una grande scuola NORMALE, piena di bambini NORMALI che, orologio alla mano, pensano allo studio, alla lettura e alla scrittura.
Tutti gli allievi di quella scuola si comportano bene, non alzano mai gli occhi dai libri, non utilizzano il tempo per giocare, perché di tempo non ne avanza mai! TIC-TAC
Imparano molte cose, se interrogati sanno sempre come rispondere e ciò rende i genitori fieri di loro e certi che diventeranno adulti degni del MONDO DEI NORMALI .
Da qualche tempo, in quella scuola, c’è un bambino che proviene da un altro mondo, il MONDO DEGLI STRANI.
Questo nuovo allievo è molto diverso dagli altri: tanto per cominciare non dice una parola, non sa né leggere né scrivere, non rispetta alcuna regola, non vuole stare seduto, gli piace mangiare pezzetti di carta, pennarelli, colla e tutto ciò che gli capita a tiro. Quando si arrabbia salta come un grillo su tutti i tavoli, butta all’aria sedie e quaderni urlando a squarciagola.
Nessuno ha idea di come lo si possa educare, nessuno lo può avvicinare né tranquillizzare.
I genitori NORMALI temono che quello STRANO allievo inviti i loro figli ad imitarlo, temono che insegni loro cose inutili come giocare TIC-TAC saltare TIC-TAC e correre TIC-TAC. Ma ciò che li terrorizza maggiormente è quella sua STRANA tendenza a catturare i compagni e a stringerli fra le braccia con un gran sorriso.
I NORMALI non capiscono il motivo di quel gesto e per di più non possono chiederne spiegazioni al bambino STRANO perché nessuno sa dialogare con lui.
Qualche giorno fa però un bimbo NORMALE ha avuto un’idea alquanto STRANA: ha provato a comunicare con il compagno STRANO con la sue stesse parole e con gli stessi STRANI versi.
Volete sapere com’è andata? I due si sono compresi all’istante così tutti hanno capito che quegli STRANI gesti, nel MONDO DEGLI STRANI, sono chiamati “ABBRACCI” e significano semplicemente “TI VOGLIO BENE”.
I bambini NORMALI ora possono abbracciarsi senza aver nulla da temere, non illudetevi però, gli adulti del MONDO DEI NORMALI credono ancora che gli abbracci siano cose dell’altro mondo…
TIC-TAC TIC- TAC…

Isabella Beraldo, psicologa e psicoterapeuta

Corsi Tenuti:

I lunedì dell’arte – Claude Monet e le impressioni di luce

Laboratorio d' arte

Laboratorio d’arte per bambini dai 6 agli 11 anni

dalle 17,00 alle 18,30

Claude Monet, reputato  il fondatore dell’Impressionismo, è considerato il POETA DELLA LUCE, in grado di raccontare l’istante  con le sue incredibili pennellate, luce e colore che si mescolano creando fantastiche armonie.

Ispirandoci alle opere dell’artista  i bambini avranno la possibilità di imparare le tecniche della pittura acrilica ricercando le gradazioni di colore come faceva il grande artista.

Conduce il laboratorio, Laura Bot, Laureata presso l’Accademia delle belle Arti di Venezia. Diplomata alla scuola di fotografia Riccardo Bauer a Milano. Specializzata alla scuola di formazione triennale in Arteterapia a Pordenone. Formata alla scuola di Disegno Onirico a San Donà di Piave. Da vent’anni lavora attraverso l’arte nelle sue molteplici forme, proponendo percorsi artistici e creativi rivolti a bambini, ragazzi, adulti, persone diversamente abili, anziani. Propone percorsi di arteterapia individuali e di gruppo.

Il valore terapeutico del silenzio

In vent’anni di attività come psicoterapeuta, ho imparato ad ascoltare i silenzi.

Ricordo uno dei miei primi pazienti, un bambino, Andrea.

Sentivo forte il desiderio di aiutarlo, di guarirlo; completamente assorbita dal pensiero di trovare una soluzione per lui.

Da inesperta, mi inerpicavo su sentieri lastricati di parole, significanti tutti miei, domande, risposte e affermazioni…mie.

Lui, invece, sempre in silenzio, mi chiedeva di giocare, non amava parlare, non amava disegnare; tutte le armi terapeutiche che conoscevo erano dunque inutili.

Io mi sentivo inutile!

Mi domandavo :”Cosa ci viene a fare qui?”

“Cosa ci sto a fare io?”

Seduta dopo seduta Andrea migliorava, il sintomo regrediva. In qualche modo stavamo vincendo noi.

Dopo qualche tempo, mi fu chiaro. Avevo finalmente accettato di ascoltare il suo silenzio. In pomeriggi di gioco e di poche parole, Andrea mi aveva aperto la porta e io ero entrata.

Non gli servivano le mie domande per guarire, non gli servivano le mie risposte.

Nel silenzio, abbiamo camminato insieme e abbiamo trovato una via d’uscita.

Sono molto grata ad Andrea, con il suo aiuto ho compreso il valore del silenzio, sia nella terapia che nelle relazioni di ogni giorno.

Il silenzio è un contenitore senza pareti, ogni tentativo di riempirlo è vano, il silenzio è spazio, è tempo, è rispetto.

Nel silenzio abita ciò che fatica ad emergere, nel silenzio cresce un albero, sboccia un fiore con il suo ritmo naturale.

Nella psicoterapia, è il diamante nascosto in ogni paziente; non ha bisogno di diagnosi, di certezze o di risposte.

Va ascoltato, misurato, aspettato, osservato.

Il silenzio darà risposta.

Oggi siamo molto in pena per l’ostinato tacere dei nostri figli, ci preoccupa per il senso di impotenza che proviamo, ma riempire questi spazi con domande è sbagliato e controproducente.

Dovremmo allenarci a vivere e a sopportare il silenzio, anche se ci spaventa il frastuono delle emozioni che esso contiene.

Imparare ad ascoltare gli ingranaggi del nostro cuore, ci aiuterà a comprendere i nostri figli.

Il silenzio è intervallo di respiro dove nasce il Desiderio, e di Desiderio abbiamo un gran bisogno.

 

Isabella Beraldo, psicologa e psicoterapeuta

A proposito di confini

In questo periodo mi sto dedicando all’approfondimento del concetto di confine, termine assai ricorrente nella mia professione (mi occupo di discipline olistiche).

Ne sono scaturiti utili spunti di riflessione non soltanto in merito al mio agire professionale, ma in primis a quello personale, a come mi pongo in relazione a me stessa e agli altri. Perciò trovo utile condividerli e chissà, forse questi miei pensieri possono risultare interessanti e fonte di ulteriori riflessioni da parte di voi che mi leggete.

Come riflessologa massaggio il piede del cliente o pratico alcune digito-pressioni in altre parti del corpo, quali per esempio il capo, allo scopo di portare equilibrio energetico laddove manca e una consapevolezza alla persona della sua “globalità”. Il “tocco” del massaggio ha funzione di duplice messaggio: vengono sollecitate le zone del piede che riflettono precise aree di tutto l’organismo umano modificandone lo stato (tonifico laddove compare un vuoto, disperdo dove c’è troppo pieno) e nel contempo contatto in modo discreto e gentile una parte più intima della persona, la sua anima, con la quale creo il dialogo spontaneo e accudente che poi è la vera relazione d’aiuto, senza utilizzo di parole, ma del tocco, appunto.

Il concetto di confine emerge proprio qui, dove la persona si riconosce e si auto-definisce nella sua interezza in quanto viene contattata la sua superficie corporea, aspetto che poi tanto ci è mancato negli anni di pandemia. Quando siamo toccati (e nel contempo tocchiamo la mano di chi ci tocca ricambiando l’informazione) possiamo essere aiutati a cogliere e comprendere i nostri confini rendendoci consapevoli qualitativamente delle nostre sensazioni corporee ed emotive e quantitativamente della struttura specifica che ci compone e ci separa dall’altro. In tal senso il confine è quello spazio appartenente ad entrambi, in quanto un lato appartiene sempre a noi stessi, l’altro è sempre verso l’esterno, verso il mondo e come tale si relaziona e modifica costantemente permettendoci di mantenere il nostro organismo in equilibrio filtrando le informazioni in ingresso e in uscita.

Quando sono consapevole dei miei confini posso individuarmi, differenziarmi, conoscermi e anche stare al sicuro.

Successivo al concetto di confine e ben connesso ad esso è quello di limite, perimetrazione che delimita “campi” funzionali diversi, dove insistono modi di comportamento differenti e, all’occorrenza norme da osservare che precludono la regola, termine spesso temuto, ma necessario alla collettività.

Tali significati trovano espressione all’interno delle mie lezioni di taiji quan, nel momento del saluto iniziale e finale, de-limitando uno spazio dedicato dove regnano silenzio e concentrazione e dove il tempo è scandito in modo “altro” nel qui ed ora, condiviso soltanto con chi in quel momento è presente in sala. Tale esperienza offre occasione (ormai sempre più rara) di ridefinire lo status dei propri confini per verificarne la salubrità: “si, è tutto a posto, sto bene, forte del mio centro posso procedere”. Questo luogo diviene il confine oltre il quale esiste tutto il resto, la quotidianità con altri ritmi ed altre regole, sempre più spesso le non-regole, dove tutto sembra essere concesso.

Il prezzo da pagare in questa società definita “liquida” dal sociologo Zygmunt Bauman è proprio questo: allentando i confini (per esempio di identità di genere) al fine di guadagnare spazio, visibilità e forse una libertà a parer mio illusoria, si rischia di non trovare più un proprio centro identitario rischiando di “confondersi” in spazi che continuamente si mischiano fra loro in un frastuono che poco permette tempi ordinati e ciclici, che implicano regola e ruolo, dei quali tutti abbiamo necessità, chi più chi meno.

E i giovani sempre più confusi, sempre di più desiderano essere visti senza però comprendere che chi non ha limite non ha nemmeno una forma e, senza forma, si è visibili soltanto nel meta-verso, prossimo obiettivo speciale di tutte le nuovissime generazioni.

 

Cecilia Panto, Counsellor professionista, istruttrice di Taiji Quan

L’ estate è finalmente cominciata

L’estate è finalmente cominciata, un altro anno di lavoro si avvia alle sue ultime battute. Voglio ringraziare le mie colleghe e compagne di viaggio, tutte le donne che hanno condiviso con me gioie e dolori di questo mestiere.
Ringrazio soprattutto i miei pazienti, persone che mi hanno concesso il privilegio di entrare nelle loro vite, in punta di piedi, per aiutarli ad attuare il cambiamento necessario.
Vi ringrazio per tutto quello che mi avete insegnato in tanti anni di lavoro, per avermi mostrato cosa siano forza e dignità. Ringrazio le donne, gli uomini, le madri, i padri e soprattutto i bambini che sempre sanno rimettermi al mio posto se sconfino troppo.
Ringrazio i pazienti che non sono riuscita ad aiutare perché mi ricordano che non posso guarire tutti e che dovrò sempre fare i conti con questa realtà.
Ringrazio chi, come il piccolo Alberto, mi ricorda che nella vita si può resistere ma si può anche decidere di cambiare.
Grazie a tutti e buona estate.

 

dott.ssa Isabella Beraldo, psicologa e psicoterapeuta

Corsi Tenuti:

Pronto logopedista? Mi fa male un piede.

So che può sembrare strano, ma può accadere. Sono Alessia Zambotto, logopedista, e spesso quando dico che lavoro faccio, mi guardano perplessi. Inizia allora una sintesi di cosa fa una logopedista, ma tra la moltitudine di termini medici e patologie mi limito a dire che mi occupo di come si parla e come si mangia. In realtà però i logopedisti non fanno solo questo.

Il logopedista, parola che deriva dal greco antico logos, «discorso» e paideia, «educazione», “è il professionista sanitario specializzato nella valutazione, riabilitazione, prevenzione ed educazione di tutte le patologie che provocano disturbi della comunicazione e/o del linguaggio. Specifici o secondari ad altre patologie. Si occupa, di fatto, dei disturbi dell’apprendimento, della lettura, della scrittura e del calcolo, della voce e delle funzioni orali come la disfagia” (F.L.I., Federazione Logopedisti Italiani), sia in età evolutiva che in età adulta e geriatrica. (Art. 1 del Decreto Ministeriale 14 settembre 1994, n.742)

La formazione del logopedista, che continua durante tutto il suo percorso con corsi di aggiornamento e professionalizzanti, permette la presa in carico di patologie come disfonie (disturbi della voce), dislalie (disturbi della pronuncia), disfagie (disturbi della deglutizione), disfluenze (disturbi della fluenza verbale), disturbi della comprensione e produzione linguistica (afasia), disartrie e aprassia (disturbi della motricità o programmazione del distretto fono-articolatorio), turbe comunicative di origine genetica, neurodegenerativa o in alterazione della relazione dualistica (sindrome di Down, Alzheimer, morbo di Parkinson, sclerosi multipla, SLA, disturbi dello spettro autistico ), disturbi da lesione sensoriale (ipoacusia, impianti cocleari, protesi acustiche), disturbi dell’apprendimento (dislessia, disortografia, discalculia) e disturbi e/o ritardi del linguaggio (disturbi fonologici, semantici, morfo-sintattici, pragmatici, disprassia).

Quando mi sono iscritta al corso di laurea per diventare logopedista nemmeno io avevo idea che questa professione potesse avere così tanti campi di applicazione e in persone di tutte le età. Tuttavia la possibilità di operare in diversi ambiti sia con bambini che con gli adulti mi ha portato ad approfondire molti aspetti della persona, sia dal punto di vista medico ma anche dal punto di vista umano e di conseguenza scoprire quali sono gli ambiti nei quali posso esprimere meglio le mie capacità. Preferenze e attitudini che sicuramente si evolveranno man mano che approfondirò determinati argomenti e affronterò determinate problematiche. Ciò che non cambierà mai sarà l’idea che avrò delle persone che incontrerò nel mio percorso, ovvero che una persona con difficoltà rimane innanzitutto una Persona. Una persona che ha bisogno di supporto, di una guida, di ascolto, di stimoli adeguati e molto altro. Per favorire una migliore qualità della vita e il benessere della persona, oltre che alla preparazione specifica, è necessario stabilire un rapporto di empatia e di fiducia reciproca che permetterà di lavorare e collaborare con chi ha difficoltà e con le persone che la circondano, perché per quanto preparato può essere un professionista, quest’ultimo ha bisogno dell’aiuto del suo paziente.

 

Alessia Zambotto, logopedista

Il lettone, troppo spesso a portata di mano

Così come ci sono i ricorsi storici anche nel mondo dell’educazione è necessario di tanto in tanto ritornare sugli stessi argomenti. Poche settimane fa sono tornata sul tema degli sculaccioni, purtroppo drammaticamente presenti nella quotidianità di troppi bambini e bambine. Il lettone è un altro argomento che sembra non andare mai fuori moda.
La cosa buffa, se così vogliamo chiamarla, è che arrivano i genitori stanchi del fatto che il figlio o la figlia abbia preso di mira l’alcova e vi si stabilizza scalzando gli adulti.
C’è una pubblicità – la trovo fastidiosa ma assolutamente in linea con i tempi – in cui mamma e papà dormono a terra su di un tappeto mentre “Marcolino” dorme spaparanzato nel lettone attorniato da peluche e giocattoli. Vince lui, decide lui quale è il suo posto e fa fuori gli adulti.
Dicevo è una pubblicità che rasenta il paradosso ma come spesso accade grazie ad attenti conoscitori degli usi e costumi del pubblico e dei clienti, va a toccare un tema molto sentito.
Per Marcolino e dei suoi genitori si tratta di non avere una camera tutta sua, il tema di fondo però è un altro: il figlio comanda sul genitore e il genitore non ha le corrette informazioni per comprendere l’importanza di buttare fuori il pargolo dal lettone all’età giusta.
Sarà colpa del lockdown?
Sarà la rinnovata incapacità del genitore di giostrarsi dentro un mondo troppo ricco di informazioni non sempre corrette?
Sarà pigrizia o poca voglia di mettersi di impegno?
Sarà semplicemente fatica?
Forse c’è un po’ di tutto questo alla base della presenza del figlio nel lettone fino a età avanzata. Nell’esperienza di questi ultimi due anni direi fino a 5/7 anni.
E non un caso o due, molti di più.
Domina la madre, troppo spesso è la mamma che ritiene di proteggere maggiormente il figlio se quest’ultimo le sta accanto. Complice indiscusso il senso di colpa per non riuscire a trascorrere del tempo con i figli durante la giornata. Lavoro stressante, ore fuori casa, incombenze domestiche quando si rientra, ergo poco tempo da dedicare ai figli.
Non serve ribadire il concetto che è la qualità del tempo a fare la differenza, che a una certa età i bambin non hanno bisogno di attenzione continua e costante. Non serve sottolineare l’importanza del bambino e della bambina di imparare a gestire i cosiddetti tempi morti, di annoiarsi. La noia, più volte ribadito anche su queste pagine, aiuta a cercare risorse interne, a inventare giochi nuovi, a superare la frustrazione dell’arrangiarsi da soli quando l’adulto non è a disposizione.
Sono tendenzialmente le madri che conducono questo genere di situazioni e mettono a tacere i compagni affermando di sapere cosa va bene per il figlio. Uso più volte il termine figlio perché, dalla mia esperienza, è effettivamente sbilanciato il numero di figli maschi rispetto alle femmine. Le bambine sembrano più competenti e nella mia casistica rappresentano un numero nettamente inferiore rispetto ai maschi.
Madri che hanno piacere nel tenere il figlio accanto, che ritengono che sia ancora piccolo per dormire da solo, che preferiscono che sia il compagno a traslare nel lettino dando l’idea al ragazzino che il posto del padre può essere spodestato.
Non intendo entrare in campi che non mi appartengono, non dirò nulla sull’evaporazione del padre o sul complesso di Edipo ma sottolineo il fatto che i genitori – entrambi i genitori – hanno il compito di aiutare u bambino o una bambina a trovare il proprio posto nel mondo.
A incominciare dalla propria camera e dal proprio letto.
Arrivano in consulenza dichiarandosi stanchi della situazione, desiderosi di non avere più il letto invaso da piedini scalcianti, ammettono anche che si sono lasciati scappare la cosa di mano e che hanno ceduto nel momento in cui hanno effettivamente provato a collocare il bimbo nel suo letto.
In questi frangenti cerco sempre di dare informazioni relative ai bisogni dei bambini e delle bambine, all’importanza di rispettare le tappe di sviluppo partendo dalle competenze che un bambino una bambina sono in grado di attivare. Dopo il terzo anno di vita ogni bambino è pronto ad affrontare la notte, il buio, la solitudine. È necessario avere la pazienza di accompagnare dolcemente questa fase, è una tappa come tante altre, la cosa più importante però è l’atteggiamento adulto. Nel momento in cui il genitore ritiene in cuor suo che il bambino possa “soffrire” per il fatto di dormire da solo è necessario fare un esame di coscienza e dirsi senza esitazioni di che cosa stiamo parlando. È il bambino che soffre o è l’adulto?
Ogni cosa viene affrontata nel momento in cui sappiamo riconoscerla; dunque, capire se il problema è dell’adulto è fondamentale.
Certamente più passa il tempo e più diventa faticoso disabituare un bambino, quando si prende il ritmo cambiare scoccia. Sta però alla fermezza adulto mettere nuove cornici, aiutare i più piccoli ad accettare quello che mamma e papà decidono.
Perché si, signori cari, le decisioni spettano a mamma e papà. Come usa dire un noto pedagogista: in famiglia non esiste democrazia.

 

Paola Cosolo Marangon, formatrice

Perfetta ? No, semplicemente normale

Ebbene si, lo confesso. Per anni sono stata una perfezionista e ora mi piace pensare a me come una perfezionista-pentita. Cosa intendo per perfezionista? Nel mio caso voleva dire un continuo affannarmi pensando di non fare abbastanza, di non essere brava, abbastanza organizzata sempre inseguita da un costante senso di frustrazione.

Le mie giornate erano costellate di liste di cose da ricordare e da un desiderio di ordine che, da brava perfezionista, percepivo come disordine. Il mio bisogno di allineamento, simmetria, uniformità mal si accordava con il mio cuore che invece percepiva tinte così forti, variegate e contraddittorie.

In questo, i tanti anni di Iyengar yoga non mi hanno aiutato. C’era una sottile aggressione nel sentire che la posizione non era mai abbastanza pulita, e che se solo avessi praticato un po’ di più, con maggiore fervore, allora qualcos’altro sarebbe successo.

Negli anni ho scoperto che non ero sola; negli anni in cui lavoravo in azienda ero circondata da perfezionisti degli eventi, dei numeri, della performance, in generale dell’efficienza. Essere nella media non era contemplato. Ho anche tante amiche mamme che inseguono un legittimo desiderio di essere delle perfette mamme e sono soprattutto delle grandi equilibriste nel continuo tentativo di tenere tutto in ordine.

Molto spesso ci si avvicina alla meditazione per lo stress generato da questo continuo bisogno di performare, o dal senso di inadeguatezza, o dall’avere dimenticato la propria voce nel continuo sforzo di imitare la voce altrui nell’illusoria ricerca di volere essere perfetti. Inizialmente ci incontriamo sul cuscino da meditazione con la stessa voce dura e piena di giudizio, anche nella meditazione vorremmo essere perfetti.

Ma siamo sempre stati così? Da piccoli eravamo probabilmente liberi da giudizi e condizionamenti su come comportarci, parlare, vestirci. Un bambino si sente amato per il fatto di esistere. Poi qualcosa accade e crescendo confonde l’amore con l’approvazione. Tutte le volte che iniziamo a riconoscere i nostri figli in base ai loro successi e alle cose che fanno o dicono, iniziamo involontariamente a rafforzare quel meccanismo di richiesta di approvazione e ricerca di perfezione. Diventando adulti cerchiamo la stessa approvazione e riconoscimento. La più difficile approvazione da ottenere e quella da parte di noi stessi.

La buona notizia? Nessuno è nato perfezionista e possiamo ricordarci come non esserlo. La pratica permette, respiro dopo respiro, di ricordare come eravamo e cioè riscoprirci umani, ritrovarci semplicemente normali e ricordare che essere normali è abbastanza.

Con la meditazione di consapevolezza impariamo a fare amicizia con noi stessi. Questo avviene in vari modi:

  • invitandoci a prendere posto, a stare anche quando vorremmo scappare
  • invitandoci a fare amicizia con le parti di noi che apparentemente non amiamo (riconoscendo che sono proprio quelle che urlano “amami! guardami!”
  • riconoscendo le storie che da tanto, troppo tempo ci raccontiamo e che ci hanno condizionato
  • trasformando le nostre aspettative in intenzioni e quindi lasciando andare tutti i dovrei, potrei, vorrei
  • scoprendoci meritevoli di amore (il nostro) proprio per quello che siamo in tutta la nostra complessità.

E così respiro dopo respiro ci riconosciamo, o ci incontriamo per la prima volta! Torniamo a casa!

La pratica della consapevolezza mi ha svelato la differenza tra “essere perfetti” e “fare del nostro meglio”. Fare del nostro meglio è abbastanza. Che rivelazione scoprire che non c’è bisogno di essere perfetti ma che va bene essere semplicemente normali.  Chandra Livia Candiani scrive parlando della pratica “Non mi chiede di essere esemplare, non mi chiede di essere eroica, non mi chiede di tendere a niente di ideale, non cancella, non acuisce, sta. Con me. Impara a stare. Imparare a essere vasti e navigare ogni mare e scoprire tra onda e onda un porto. Provvisorio, rischioso, eppure proprio per questo affidabile, perchè reale“.

La pratica della consapevolezza allena a ritrovare quella fiducia in noi stessi che sembrava dimenticata. Una fiducia che non si fonda su modelli, sistemi, credenze esterne a noi ma a una capacità, energia che vive nel nostro cuore.

Chiudo con una poesia di Derek Walcott che racconta questo lento riconoscimento, questo guardarci allo specchio e vederci per la prima volta. Un abbandonare i vecchi drammi che ci hanno tenuto in ostaggio, le storie disperate che avevamo creduto vere. Ci riconosceremo non perfetti, ma semplicemente noi stessi così come siamo. Inizia la festa.

 

Amore dopo Amore

Tempo verrà

in cui, con esultanza,

saluterai te stesso giunto

alla tua porta, nel tuo stesso specchio,

e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro

e dirà: Siedi qui. Mangia.

Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.

Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore

a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la tua vita, che hai ignorato

per un altro e che ti sa a memoria.

Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,

le fotografie, le note disperate,

stacca dallo specchio la tua immagine.

Siediti. È festa: fai banchetto della tua vita

 

Anna Li Vecchi, certificazione come insegnante MBSR dal Mindfulness Centre Brown University School of Public Health

Vogliamo bambini sani e felici?

E’ sempre grande la felicità che provo nel guardare un bambino che gioca o più bambini che insieme organizzano fantastici e creativi giochi in cui si esprimono, si divertono, sperimentando la realtà con ogni cellula del loro corpo e del loro essere sprizzando gioia da tutti i pori.

Giocare per il piacere di giocare!

Si sprigiona una magia dal gioco dei bambini che per me è sempre fonte di fascino, di stupore, di meraviglia e di conoscenza.
Mi riferisco al “gioco libero” in cui il bambino può organizzare il proprio spazio e il proprio gioco come più desidera, libero dal controllo e dal giudizio dell’adulto. E’ proprio in un simile contesto che il bambino può fare esperienza di sé, della sua corporeità; può sviluppare la sua immaginazione, rafforzare l’autonomia, la destrezza e le competenze cognitive.
Il gioco è fondamentale in quanto aiuta il bambino a costruire e conservare un equilibrio personale dinamico in cui iscrivere il proprio processo di crescita, permettendo un buon livello di autonomia.
Non dico nulla di nuovo affermando che il gioco è un elemento essenziale nel processo maturativo, nel passaggio dall’assoluta dipendenza dell’infanzia alla progressiva autonomia delle età successive. E instancabilmente ribadisco che in tale processo il gioco è un elemento essenziale di rassicurazione e di sostegno che risponde a molteplici bisogni: biologici, affettivi, cognitivi, creativi, sociali.
Bruner definisce il gioco come la più seria delle attività dell’infanzia. Donald Winnicott, pediatra e psicanalista inglese, sostiene che è essenziale perchè costituisce un’esperienza creativa che permette al bambino di rivelare le sue tendenze individuali profonde. Maria Montessori, grande educatrice e pedagogista, vede il gioco come fondamentale occasione per veicolare importanti valori quali il senso del dovere, il rispetto, la responsabilità. Lo psicologo ginevrino Jean Piaget afferma che il gioco è la trasposizione simbolica della realtà conosciuta e lo definisce “ il lavoro“ del bambino .

Purtroppo, nella mia esperienza lavorativa come psicomotricista, vedo sempre più bambini che “non sanno“ giocare e che manifestano qualche forma di disagio. E non nego che ciò mi procura tristezza mista a rabbia pensando alle responsabilità che abbiamo noi adulti e alla necessità, non sempre soddisfatta, di rispondere ai bisogni fondamentali nell’importante processo di crescita dei bambini.
Il livello e la qualità del gioco libero rivelano effettivamente quanto il bambino sia in grado di essere autonomo. Per autonomia intendo l’aver interiorizzato la presenza dell’altro per poter esprimere le proprie potenzialità e creatività da soli. Il gioco libero è un indicatore che mi dice quanto il bambino sia autonomo e adeguato oppure quanto sia in dificoltà, soprattutto emotiva, proprio perchè non contenuto dall’adulto.
Spesso assisto ad un gioco disorganizzato in cui il bambino è in balia delle sue azioni caotiche, del suo movimento perpetuo, che non sa fermarsi o che si perde nel suo stesso caos, che vaga senza saper dove andare in cerca di stimoli sempre nuovi e diversi.
Oppure osservo un gioco esplosivo in cui il bambino non riesce ad incanalare adeguatamente un eccesso emotivo in modalità di esecuzione adeguate, proprio per un difetto di autoregolazione emotiva. L’emozione vissuta aumenta sempre più e fa esplodere tutto lasciandolo in un cumulo di macerie. Inoltre c’è un gioco frammentato in cui il bambino tocca tutto, inizia varie attività senza riuscire mai a fare qualcosa di veramente costruttivo. Rimane in superficie delle cose e il suo gioco non potrà mai essere esperienza autentica nell’incontrare le cose e l’altro.
E poi incontro bambini in cui l’inibizione ha il sopravvento: il senso del gioco potenzialmente è presente ma la realizzazione è bloccata e il vissuto emotivo è paralizzato.

Mi rendo conto che oggi molte cose sono cambiate. Le nostre città sono sempre meno a misura di bambino. Sono troppo pochi i luoghi in cui i bambini possano divertirsi a giocare liberi senza adulti sempre pronti ad intervenire, ad organizzare, a prevenire. Le strade, le piazze, i giardini, i cortili sono oggi luoghi pieni di pericoli, di insidie occupati dal traffico e saturi di smog. Molte scelte, di carattere politico, hanno ridotto sempre più lo spazio vitale di gioco nelle città che vengono giudicate non sicure dagli adulti. Ciò li induce, come reazione, ad aumentare il controllo e ciò comporta una riduzione dell’autonomia. E’ purtroppo un circolo vizioso. Caricati in macchina spesso i bambini vengono scorazzati di qua e di là, portati a fare psicomotricità, sport, musica, danza, inglese e altre attività strutturate, oppure lasciati per ore ben piazzati davanti alla tv, all’Ipad o al computer.

Oggigiorno è tolta loro la possibilità del tempo libero e del riposo; è spesso negata la possibilità di libera espressione del loro magnifico potenziale creativo, della loro peculiarità e individualità, delle dinamiche relazionali e socializzanti che il gioco offre.

Il bambino è naturalmente dotato di un istinto al gioco e di un’attitudine a creare giochi spontanei senza l’intervento diretto dell’adulto ed è spinto da bisogni e pulsioni che vanno ascoltati e assecondati. Ma se gli togliamo tutto ciò, è probabile che emergano prepotentemente gli effetti negativi sulla salute e sul benessere portando a situazioni di disagio e scompenso nei processi di crescita.

Sosteniamo quindi e incoraggiamo il gioco libero dei bambini !!!!
Forniamo loro situazioni e occasioni, spazi e tempi in cui giocare liberamente , facendo da soli e misurandosi con le proprie forze e capacità!!!!

Quanto più un bambino ha la possibilità di giocare liberamente tanto più sarà felice e sano; tanto più migliorerà le competenze corporee e motorie; tanto più svilupperà fiducia in sé stesso, armonia, autostima, sicurezza e autonomia. E non è poco, perchè queste sono le basi per una buona resilienza.
Solo se un bambino avrà giocato nell’infanzia giochi autentici potrà essere un giovane e un adulto che con curiosità scopre e conosce e con solidarietà si relaziona con gli altri.

 

Annalisa De Nardo, psicomotricista

Il mattino ha l’oro in bocca

Me lo dicevano i miei nonni quando i miei genitori, insieme ai miei fratelli ci portavano a casa loro in estate per qualche settimana di vacanza.
Ci tiravano giù dal letto di buon mattino e facevamo tutti insieme un giro in giardino in compagnia dei due cani Moris e Pippo. Qualche esercizio ginnico con il respiro a pieni polmoni mentre mia nonna ci raccontava la storia degli alberi e delle piante del giardino. Poi si rientrava a fare colazione. Ero una bambina un po’ pigra e inizialmente trovavo faticoso modificare i miei ritmi consueti, ma dopo qualche giorno il tutto mi divertiva e mi sentivo bene, a livello emotivo e fisico. Quanta più fame avevo e quanto più volentieri mangiavo. L’”oro” della mattina mi entrava in bocca! (il qi respirato e trasformato mi aumentava l’appetito).

Questo ricordo l’ho conservato nel cuore e il “corpo-mente” me lo ripropone ogni qualvolta pratico Taiji Quan di buon mattino. Il corpo-mente che ha una memoria capace di attivare emozioni e ricordi. Il corpo-mente che io chiamo “ecologico” in quanto la memoria attivata mi fa stare bene. E Le belle sensazioni che si percepiscono praticando Taiji Quan al mattino rimangono impresse e personalmente diventano “motore” e stimolo per estendere la pratica a tutto l’anno, come per portare idealmente l’estate, l’entusiasmo e l’ambiente naturale (prezioso come l’oro) all’interno dello spazio di casa o della palestra. E poi è come se la giornata prendesse un’altra “piega”. Si va a fare colazione con più appetito, al lavoro più carichi e leggeri e comunque con la sensazione di aver gia fatto e dato qualcosa in più a noi stessi. Si, è proprio vero che la mattina ha l’oro in bocca.

E allora non mi rimane che augurarvi buona pratica mattutina a tutti, al mare, al parco, in terrazza…

 

Cecilia Panto, counselor, istruttrice Taiji Quan

 

Mamma, papà guardatemi!

“Mamma, guarda che salto so fare…”
“Papà, guarda come corro veloce…”
Con queste richieste di riconoscimento il vostro bambino va a costruire la sua identità.
Sappiamo che il bambino piccolo acquisisce le varie conoscenze e impara attraverso il movimento, attraverso le esperienze corporee, attraverso le varie produzioni del corpo. Il più importante canale espressivo nei primi anni di vita del bambino è, appunto, quello corporeo.
Nella sua spontaneità il bambino usa il suo corpo e il movimento in modo gratuito, per la ricerca del piacere di sentirsi, di sperimentare, di fare, ma formula sempre una richiesta essenziale agli “adulti”: “mamma, papà , guardatemi…”

Il genitore, quindi, con il suo sguardo attento e partecipe restituisce al bambino, al suo movimento e all’uso del suo corpo una valenza emozionale e conferma così la sua identità corporea, che costituisce la base su cui poi verranno costruiti tutti gli aspetti più complessi della personalità.

Nel suo bellissimo libro intitolato “Maestra, guardami…” G.Nicolodi dice: ”Maestra guardami, perchè nel tuo sguardo compartecipe della mia emozione possa leggere quanto il mio corpo è bello, forte, capace… quanto io sono.
Dimmi che l’emozione che provo in questa corsa, in questo salto, lancio, nel fare il guerriero, la fatina, il cagnolino, è vera, positiva, valida… è mia.
In questo riconoscimento il bambino potrà riappropriarsi di un immagine corporea di sé positiva, fondamento di ogni ulteriore crescita anche in termini funzionali e cognitivi”.

Lo sguardo del genitore è quindi fondamentale, ma deve essere uno sguardo benevolo e rassicurante, non giudicante, non carico di ansia o di aspettative. Guardare il proprio bambino con piacere significa aiutarlo a contenersi, a diventare più sicuro di sé, a rassicurarlo perché possa “andare avanti “ fiducioso nel suo percorso di crescita.

 

Annalisa De Nardo, psicomotricista

Una mamma non dice

Essere madre, grande avventura, aspirazione, desiderio supremo.
Sentirti tua e improvvisamente altrui, la mente prende a viaggiare inesorabile senza che tu ne abbia il controllo. Così, in un attimo qualsiasi di una giornata come tante, uno stick di plastica ti annuncia che sei già cambiata e che sarai diversa per sempre.

Allora quanti pensieri, quante immagini, quanti sogni e inevitabili paure, ti assale la voglia matta di urlarlo al mondo oppure no, lo vuoi tenere tutto per te, per voi e tutti gli altri fuori…
Lo hai desiderato moltissimo ma adesso invece ti spaventa perchè senti che tutto questo non si fermerà davanti a niente e che non sarai più tu.

In certi momenti non ti accetterai, ti assalirà l’angoscia ma poi…una felicità da far tremare i polsi.

In tutti questi attimi di vita cerchi parole, aiuto, comprensione che spesso non arrivano o forse tu avresti bisogno solo di essere ascoltata e vista per quello che sei ora.
Delicata, più di prima, ma forte come una guerriera, non ti riconoscono, non ti vogliono così.
Giudicano, tanto. Tu annaspi ma non molli, a volte vorresti ma non lo fai, a volte vorresti solo poterlo dire a qualcuno -mollo tutto- ma non te lo permetti. Che madre sei?!
Una madre non dice, non può. Una madre è felice, amorevole, forte, volenterosa, fiera.
Una madre non cede e non dice.

E allora parli con il tuo bambino, gli dici che lo ami da morire anche quando senti di non farcela, gli dici che non c’è nulla nella tua vita che potresti amare di più, gli dici però di avere pazienza perchè la sua mamma è una donna come tante che sa diventare una tigre per difenderlo ma che a volte piange, è stanca, grida, si infuria.
La mamma è una donna che vuole lavorare ma che non vorrebbe lasciare il suo bambino, poi quando è fuori casa si sente bene e anche per questo si sente in colpa.
La mamma però queste cose non le può dire a nessuno perchè una madre certe cose non le pensa, una mamma ama e basta.

E allora, bambino mio, lo dico a te, tutto il coraggio che ci vuole ad amare così come ti amo io, fino ad annullare me stessa, tutto il coraggio che ci vuole ad amarti così come ti amo io e decidere di lasciarti andare per ritrovare a tratti me stessa, perchè questo farà bene a entrambi, perchè mi renderà una madre migliore per te che sei lo scopo primo e ultimo della mia esistenza.
Ma questo una madre non lo può dire.

A tutte le mamme.

 

Isabella Beraldo, psicologa e mamma

Psicomotricità e immagine del corpo

PSICOMOTRICITA’ E IMMAGINE DEL CORPO

“Sii il meglio di qualsiasi cosa tu sia”

Se non puoi esser pino in cima alla collina,

sii pruno nella valle, ma sii sempre il più

bel cespuglietto accanto al ruscello;

se non puoi esser albero sii cespuglio.

Se non puoi esser cespuglio, sii dell’erba

e abbellisci come puoi la strada maestra;

se non puoi esser muschio, sii alga,

ma l’alga più graziosa del laghetto,

se non puoi essere un luccio,

allora sii solo un pesce persico:

ma il persico più vivace del lago!

Non possiamo far tutti il comandante,

altrimenti la ciurma chi la fa?  C’è qualcosa da fare per tutti.

Ci sono lavori grossi e altri meno

e ciascuno deve scegliersi il più adatto.

Se non puoi esser strada, sii sentiero,

se non puoi esser sole, sii una stella;

vincere o perdere

non ha a che vedere con la grandezza

ma bisogna essere al meglio quello che si è

*Douglas Malloch *1877-1938

 

Leggere questa poesia mi ha fatto venire in mente i colloqui con i genitori alla fine del percorso di psicomotricità, durante i quali capita che qualche genitore, parlando del proprio figlio, usi frasi e parole come “non è capace”, “è imbranato”, “non sa fare le cose che fanno gli altri bambini” ecc…

E allora mi sorgono queste domande: quanto è importante per lo sviluppo del bambino l’immagine che il genitore ha del proprio figlio? E ancora: quanto le aspettative genitoriali possono influire, sia a livello motorio che a livello emozionale, nella crescita del bambino e nella strutturazione della propria immagine del corpo? Perché l’immagine del corpo riveste un ruolo così rilevante nella strutturazione della personalità e dell’identità di un bambino?

Senza volermi addentrare nei tecnicismi, spesso di difficile comprensione, soprattutto per i genitori, riporto di seguito una semplice ed esauriente definizione di Immagine del Corpo.

La Dolto nel suo libro “L’immagine inconscia del corpo” (1984) definisce L’immagine del corpo come un immagine “pensata” legata alla storia personale e alle relazioni, fondamentalmente alle relazioni con i genitori nei primi tempi di vita. E’ quindi l’elaborazione degli scambi affettivi avuti con i genitori o le prime figure di cura e si struttura con l’esperienza. E’ perciò la sintesi vivente delle nostre esperienze emozionali e rappresenta in ogni momento la memoria inconscia di tutto il vissuto relazionale.

Questi scambi e condivisioni emotive, tipici della relazione corporea madre-bambino, sono definiti da Ajuriaguerra dialogo tonico (a cui Wallon ha poi aggiunto il termine emozionale); se quindi un bambino non ha la possibilità di vivere con piacere la comunicazione sul piano corporeo o per disordini o carenze da parte della madre, potrebbe avere difficoltà nell’interazione, nell’investimento sull’ambiente e nella definizione della propria identità psico-corporea.

La costruzione dell’immagine corporea, dunque, è un processo graduale che inizia fin dalla vita intrauterina e continua per tutto l’arco della nostra vita e, proprio perché basata su esperienze e vissuti personali, può discostarsi dalla nostra reale apparenza fisica ed essere condizionata tanto dalla percezione soggettiva della persona, quanto dalla percezione che gli altri hanno di noi.

Il concetto di immagine del corpo è strettamente collegata all’immagine di sé ed implica come e in che modo percepiamo il nostro corpo e gli altri ci percepiscono, ed è quindi comprensibile quanta importanza abbiano i fattori psicologici e sociali.

Per un bambino è di fondamentale importanza l’immagine che il proprio genitore ha di lui, soprattutto nei primi mesi di vita in cui il rapporto è di totale dipendenza. E anche quando conquista le prime forme di autonomia, il giudizio che la propria madre o il proprio padre hanno di lui, rivestirà un ruolo cardine nella strutturazione della propria immagine del corpo, nella fiducia, nell’autostima, e nella possibilità di sentirsi capace e competente.

Un’immagine di sé fragile può portare a delle difficoltà nello sviluppo del bambino e può sfociare in un disturbo psicomotorio che non è altro che l’espressione corporea di una sofferenza emotiva, di una difficoltà nel rapporto con sé stesso e gli altri, sul piano dell’essere, del fare, del poter fare, del saper fare e del voler fare (Ajuriaguerra, Soubiran, Berges, Boscaini).

Il bambino può sembrarci quindi “imbranato” o “incapace”, ma in realtà si tratta solo di una manifestazione dell’immagine che lui ha del suo corpo e di sé stesso e di una identità non del tutto strutturata che si manifesta proprio nella sua incapacità, o impossibilità, di eseguire un adeguato atto motorio in linea con la dimensione emotiva. Al contrario, un bambino con una immagine del corpo ben strutturata si sentirà sicuro di sé, capace e motivato e di conseguenza sarà più semplice per lui sperimentare il proprio corpo, imparare nuove competenze e muoversi armonicamente nello spazio; tutto ciò accrescerà ancora di più la sua sicurezza, la sua autostima e il suo desiderio di crescita.

Questo è proprio uno dei principali obiettivi della psicomotricità: accompagnare il bambino a vivere le esperienze piacevoli del movimento e a condividerle con gli altri e rassicurarlo ed aiutarlo a prendere fiducia nelle proprie personali capacità d’azione e affermazione; in questo modo il bambino potrà porre le basi per la strutturazione di un’immagine di sé forte e positiva, che lo aiuterà e lo supporterà per tutta la sua vita.

Dalla mia esperienza con i bambini mi sento perciò di consigliare ai genitori di iniziare fin da subito a supportare la strutturazione di una buona immagine del corpo del proprio figlio, considerandolo come soggetto unico e speciale, insegnandogli che la sua unicità è il dono più prezioso che ha e la missione che deve cercare di compiere è realizzare il proprio essere. La meta a cui deve tendere è quella più coerente con i suoi valori ed il suo carattere.  Questo è il vero successo nella vita. Non possiamo perciò riversare le nostre aspettative di realizzazione nel farne un doppione uguale o migliore di noi stessi, ma abbiamo l’obbligo di aiutarlo a sentirsi sicuro, capace, competente e perciò sereno.

 

Edy Toppan  – Psicomotricista

Tanti anni fa ero bambina

Tanti anni fa ero bambina e nei giorni di fine estate mi assaliva una tremenda angoscia.
Dovevo tornare a scuola!
Il sentimento che provavo era insostenibile, lo ricordo, anzi, lo rivivo esattamente come allora.
Tutto come 30 anni fa: ansia, paura, smarrimento e desiderio di protezione.
Il rientro dalle vacanze non significava solo perdere le mie adorate montagne, gli amici, i prati, mio padre ma significava soprattutto perdere la libertà di essere spensierata e leggera.

Scrivo questo a pochi giorni dall’inizio di un nuovo anno scolastico che vorrei potesse essere pieno di soddisfazioni per ogni bambino.

Vorrei che la scuola fosse occasione di conoscenza di sé e del mondo, occasione di ricerca curiosa, di ritrovo, di impegno, d’affetto e stupore, di fatica e di respiro.

Vorrei che mio figlio potesse vivere la scuola come una splendida occasione per crescere, comunicare, giocare, imparare, amare.

Per questo saluto con affetto la mia maestra, ma spero che tutti i bimbi possano vivere una scuola molto diversa dalla mia!
Una scuola accogliente, capace di rinforzare le qualità soggettive senza puntare il dito sulle debolezze, una scuola dove sia messa al bando ogni denigrazione, ogni offesa e umiliazione, una scuola lenta lenta ma divertente e curiosa che sappia fermarsi quando un bambino soffre.
Una scuola che sappia curare senza bisogno di esperti, consapevole che il disagio dei bambini si cura più con l’ amore.
Per l’amore non servono esperti.
Buona scuola bambini!

 

Isabella Beraldo, psicologa, psicoterapeuta

Il segreto del canto bambino

Ascoltare dei bambini cantare è un’esperienza che apre le porte di un mondo fantastico e porta l’adulto a valicare i confini del quotidiano per proiettarsi in quei mondi della propria infanzia consentendosi di fare dei percorsi a ritroso nella propria storia, fatta di armonie e spensieratezza, giochi e filastrocche, lievità e allegria. Si muovono canali percettivi che si agganciano a quel nostro io bambino che richiama il senso ludico e la gaiezza interiore.

Questo il sentire adulto, la percezione che l’ascoltatore ha di fronte ad un coro di voci infantili.

Come adulti educatori, sappiamo bene però che la valenza dell’esperienza corale per un bambino e una bambina è molto formativa.

Oggi i bambini sono spinti sempre più verso una produzione individuale, la scuola (già ai centri infanzia) li attiva alla competizione, lo sport li spinge a primeggiare, la vita stessa li butta dentro una corsa sfrenata verso il raggiungimento di obiettivi sempre più individualistici. Le nuove tecnologie fanno fare esperienze solitarie, spesso rinchiusi nelle loro stanze; allora la musica in gruppo e il canto corale sono ottimi per sperimentarsi con gli altri. Spazi, tempi, regole, obiettivi. L’esperienza del canto aiuta a condividere bello e brutto, alto e basso, diritto o storto…

L’esperienza corale consente al bambino di stare dentro una cornice predisposta dal maestro, ma anche dalla musica stessa. C’è una morbida rigidità che abitua il bambino a stare dentro criteri precisi e lo aiuta ad organizzarsi di conseguenza.

La preparazione di un piccolo concerto fa fare l’esperienza organizzativa, ma anche riflettere sulla propria modalità di porsi all’interno del gruppo, muove una organizzazione interna molto importante.

L’esperienza quotidiana dei nostri bambini, soprattutto per quel che concerne la vita assieme ai pari, è fatta di comportamenti spesso inconsapevoli, dove viene tolta sempre più responsabilità e viene attivata una iper protezione da parte del mondo adulto che impedisce l’acquisizione della responsabilità individuale.

Proviamo a pensare a tutte le volte in cui un adulto si mette a difendere a spada tratta un bambino, all’interno di un litigio con i suoi compagni e compagne. Adulti che non responsabilizzano i figli a prendersi colpe e conseguenze, e si schierano entrando in territori che dovrebbero essere vietati ai “maggiorenni”.

Chi lavora con i bambini, o chi è genitore, sa quanto la frenesia dei “tempi moderni” (come direbbe Charlie Chaplin) ci fa commettere errori grossolani ma non per questo non importanti. Tendiamo a fare “al posto di”, a sostituirci ai bambini. Questo nelle cose più semplici (legare le scarpe, indossare un golf o abbottonarlo, preparare la cartella) come in quelle più complesse (anticipare pensieri ed emozioni).

Sostituirsi al bambino e alla bambina significa privarli della possibilità di imparare sia sul versante del “fare” che sul versante dell’”essere”. Spesso significa anche impedirgli di sbagliare e l’errore è molto importante in un processo di apprendimento e di crescita.

Con l’esperienza del canto il bambino e la bambina, grazie all’accoglienza dell’educatore (maestro) e al confronto con gli altri, impara a relazionarsi e a “fare da sé” sia in senso emotivo che pratico.

All’inizio ogni bambino non sa come si canta, pian piano diventa autonomo e sa attivare sue risorse interne, assieme alla messa in pratica delle “regole d’uso” che il maestro gli insegna. Ma il maestro non può cantare per lui, così come non lo può fare nessun compagno . Sarà lui/lei autonomamente che imparerà a mettere del suo, a far uscire voce e tanto altro.

 

Paola Cosolo Marangon, formatrice e consulente educativa

I disordini della scrittura in un’ ottica psicomotoria

Ritengo che i disordini grafici e i disturbi della scrittura devono essere letti in rapporto al corpo e nella dimensione psicomotoria, e che l’intervento messo in atto deve essere un intervento complesso e delicato che richiede tempo e soprattutto ascolto attento e profondo del bambino nella sua globalità psicomotoria e non solo nel suo disagio relativo alla scrittura.
L’intervento dovrà essere orientato quindi non solo a migliorare le abilità e le competenze alla base della scrittura, ma anche a restituire al bambino un’immagine di sè positiva sostenendo l’autostima spesso minata dalle continue frustrazioni scolastiche.
Dietro ogni scrittura difficile, disorganizzata, problematica c’è un bambino con la sua unicità, le sue specificità e le sue peculiarità.
L’intervento va quindi personificato, va costruito sulle specifiche difficoltà del bambino e non può essere solo un lavoro sterile di riabilitazione applicabile indistintamente. Quindi non solo esercizi e attività sotto l’insegna dello sforzo e della costrizione, tipico approccio del riabilitatore, bensì anche massima attenzione alla dimensione emotiva e spazio all’espressione corporea che concorrono a creare l’armonia psicomotoria necessaria per un più facile apprendimento della scrittura.

 

Annalisa De Nardo, psicomotricista specializzata in grafomotricità